Gli editoriali

a cura del prof. Montefrancesco

Non mi piace il cellulare. (editoriale)

Non mi è mai piaciuto, sin dalle prime volte.
Troppo importante, voluminoso e pesante.
Lo lascio ovunque e lo dimentico appena usato. Spesso l’ho ancora in mano e lo cerco
Non ha la leggerezza attesa. Molti anni addietro ne ebbi uno che sembrava un telefono da campo,
giusto per parlare con qualche ufficiale del genio civile.
In ogni caso sembrava che dovessi accettarlo per le funzionalità indiscutibilmente moderne.
Poi via via è divenuto sempre più piccolo. Quindi più conformato.

La modernità è stata la ragione che mi ha preso in giro. E poi non l’ho più amato.
In effetti non avrei potuto né attualmente posso farne a meno, ma non riesco, alla fine, a sentirmi moderno con il cellulare o per il cellulare.
Devo sentirmi moderno perché il mezzo mi regala il lusso di parlare ovunque e con chiunque.
Il dono di una loquace ubiquitarietà. Più spesso di dire cazzate, ovunque e con chiunque, ma certo di vivere in qualsiasi luogo connesso con il resto del mondo.
In (con) quel piccolo mistero avrei potuto consumare la certezza di essere vivo , vegeto e teletrasportato.

Con voce certa e ottave superiori dicevo all’altro, e al resto del mondo che passava a pochi metri da me, che ero attuale, ragionavo complesso e avevo gusti non ordinari.
Avevo un benessere moderno e lo facevo intuire parlando nel bel mezzo dell’aria, dispiegando la voce argomentata come un lenzuolo. Mentre parlavo potevo anche accennare a qualche agile movenza del corpo per accennare a dinieghi o approvazioni entusiaste. Tutti gli astanti potevano gustare, entusiasti e meravigliati, l’originale teatralità della mia vita. Ed ero solo al prologo o al massimo al primo atto.
Mica banalità. Mica cazzate.
Nell’essenza, però, era cambiato solo il luogo in cui avvenivano le conversazioni.
Per il resto, l’oggetto telefonico non migliorava affatto il mio evoluto.
Anzi mi spostava indietro. Percepivo che mi costringeva a riempire il vuoto o l’enfasi della conversazione con altri vuoti.
Cessata la comunicazione spesso mi sono sentito scemo.
Come quelli che dopo aver mangiato e bevuto troppo, alla fine hanno un viso rincretinito.
Spesso ridono senza ragione.
Quindi niente modernità.

Poi ancora più importante, il mostro nero mi obbliga a obblighi infiniti.
Come appendice, fredda, perfetta ed orrenda, mi guarda e può intervenire quando vuole.
E’ intrusivo, pesantemente indiscreto ed è  un ruffiano dei poteri forti.
Con lui e per lui intervengono pagamenti di qualsiasi genere.
Sono costretto da un oggetto potente che mi fa sentire un suddito. E’ insopportabile.
Devo rispondere o corrispondere alla chiamata.
Escludiamo quelle telefonate che ti arrivano da Roma, Milano, Bari, Albania, Casalpusterlengo e persino da Lodi, città certamente splendida ma verso cui, non avevo mai rivolto il pensiero.
In questi casi, il momento per un piacere irritato. Non rispondo, come fan tutti e magari si cancella completamente.
Piccoli omicidi quotidiani.

Rifiuto che venga a letto con me; nel bagno è utile perché è come la settimana enigmistica.
Meno male allora che spesso lo perdo.
Per essere libero e lontano da quei prepotenti.
Ora posso andare a parlare con qualcuno fatto carne.