Le storie

dott. Giuseppe Montefrancesco

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Dott. Giuseppe Montefrancesco

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Una forma insolita di anoressia

“Sono stata io la causa e il rimedio di tutto. L’artefice della distruzione e il fautore della rinascita. È stata la mia stessa testa a generare ogni cosa, a farmi precipitare nel baratro della dipendenza e a darmi i mezzi per tirarmene fuori. Perché le dipendenze che seducono l’uomo, che lo attirano e lo imbrogliano, lo rapiscono e dopo averci giocato lo riducono all’impotenza, sono molteplici e di varia natura; la mia si chiama schema mentale.
Forma strana di dipendenza, difficilmente comprensibile se non la si vive, tanto diversa da quelle più comuni, gli stupefacenti, l’alcool, ma ugualmente capace di segregarti in una prigione. È così che mi sono sentita per mesi: carceriera di me stessa.
Non ricordo come sono arrivata a perdere peso, a smettere di nutrirmi in modo adeguato, a fissare la mia immagine nello specchio e a desiderare che i contorni della mia figura si allontanassero sempre di più dal telaio del vetro. Ricordo solo quel maledetto terremoto che ha distrutto una città e con quei palazzi e tutte quelle vite innocenti s’è portato via anche la mia serenità. Fu allora che i miei tormenti sopiti, i miei disagi anestetizzati dalla quotidianità si sono manifestati con tutta la loro prepotenza. Ho cominciato a sentirmi inadeguata, inadatta alla vita, vittima di un destino infelice che davvero non mi meritavo, e ho iniziato a vedermi grassa, brutta e insignificante.
Non riconoscendomi più nei miei ideali e non riuscendo più a perseguire i miei obiettivi di vita mi gettai con impegno in una nuova sfida. Consultai una dietologa e iniziai una dieta. Il primo tassello di un gioco infernale, di una partita infinita durata degli anni.

Con il terremoto de L’Aquila la mia vita ha subito una brusca sterzata. La mia capacità di applicarmi nello studio è gradualmente scemata finché i sintomi della depressione sono diventati talmente evidenti da spingermi a cercare un aiuto esterno. Ho iniziato a disprezzarmi, ad assecondare quell’odiosa apatia che mia aveva tolto la voglia di vivere. Non riuscivo a guardarmi in faccia senza vedere una persona maligna, spregevole, irriconoscente e irresponsabile. Il senso di colpa divenne mio inseparabile compagno e la vergogna di me stessa, di quello che stavo diventando, mi fece chiudere completamente al mondo conducendomi in una spirale distruttiva e spingendomi, nell’estremo tentativo di punirmi, a privarmi di tutto ciò che sentivo di non meritarmi. La felicità, per esempio, che spetta solo a chi sa adempiere ai propri compiti e che sa ripagare la fiducia che gli altri ripongono in lui. La gioia del cibo, forse, non poteva appartenermi.
E al senso di colpa si aggiunse la delusione, quella che provavo nei miei confronti e quella che credevo di leggere negli occhi dei miei genitori, di mio fratello. E più cercavo di non rovesciare loro addosso tutti i miei complessi più quelli aumentavano e mi facevano sembrare tanto peggiore e mi davano la percezione che la mia vita non fosse più tanto mia quanto del tempo, di un presente immutabile e disastroso.
Mi sentivo mentalmente stanca, spossata, e soprattutto spaventata. Impaurita dalla consapevolezza che non mi riusciva più di vivere ma solo di sopravvivere. Convinta di essere un peso per gli altri, ho iniziato a desiderare ardentemente di sparire, di annullarmi, di liberare il mondo di questo inutile peso. Fu allora, temo, che smisi di mangiare adeguatamente.

C’è da dire che non ho mai veramente digiunato. All’inizio non pensavo neppure che mangiare di meno avrebbe potuto causare delle serie conseguenze. Semplicemente non sentivo il bisogno di nutrirmi come non avvertivo più la necessità di alimentare il mio animo e la mia mente. Divoravo libri con la stessa naturalezza con cui mi riempivo il piatto di pasta, di tutta quella che mi andava; era inevitabile che la depressione annullasse indifferentemente tutti quelli che per me erano stati bisogni irrinunciabili.
Forse a rafforzare questo mio atteggiamento distruttivo ha contribuito il fatto che la mia ferrea volontà non vacillava solo quando si trattava di non cedere alle tentazioni. La mia vita stava fallendo in ogni aspetto importante, nello studio, nella vita sociale, ma non nel mio aspetto fisico: se decidevo di dimagrire, riuscivo a farlo senza troppi sforzi, e forse, se fossi stata più magra sarei risultata più apprezzabile. Le calorie allora hanno cominciato a farmi paura.
Ad arrivare a perdere il controllo e la gestione di se stessi, la strada è breve, e alla mia terapista non ci volle molto a capire che ero affetta da seri disturbi alimentari. Una forma insolita di anoressia, la mia, più un sintomo di un malessere interiore che la vera causa dei miei disagi.

Analizzando con la dottoressa le mie giornate e le mie abitudini divenute ossessive e compulsive ho cominciato ad avvertire con chiarezza dentro di me quell’ostacolo, quel gradino che con tutti i miei sforzi mi era difficile superare: la spensieratezza, l’approcciarmi al cibo senza idee e preconcetti, senza controllare nel dettaglio la lista dei nutrienti, solo perché è giusto nutrirsi bene ma anche soddisfare gli sfizi, perché non è solo il corpo che ha bisogno di cibo, beh, mi mancava completamente. Certo avevo paura, una maledetta paura di perdere il controllo; il terrore dell’attesa di un epilogo negativo non mi permetteva di liberarmi da quel regime.

Ma cos’è che mi spaventava così tanto? Rivedermi grassa? Forse era solo l’ansia di leggere un apprezzamento negli occhi degli altri, forse solo l’intenzione di non guastarmi nell’attesa di trovare qualcuno che sapesse apprezzarmi anche fisicamente. E più crescevano i dubbi e le domande più mi sentivo ridicola e sciocca a non saper dominare quegli atteggiamenti autodistruttivi.
E se il cibo e il rapporto conflittuale che avevo con l’alimentazione fossero stati davvero indicatori di un malessere che costringevo a rimanersene assopito per paura di sapere, forse, come stavano veramente le cose? Significava che la mia vita era stata solo un cumulo di bugie, che avevo trascorso tutta la mia esistenza a mentirmi, a convincermi che c’era sempre tempo di crescere? Stavo forse sfuggendo la realtà? C’era davvero bisogno di scavare a fondo per trovare la radice di tutti i miei disagi?
Ma si poteva davvero sconvolgere così tanto il proprio passato in cerca del marcio?
Spaventata, insoddisfatta, disprezzabile e infine anche terribilmente confusa.
Ogni giorno di più cresceva la brutta sensazione di essere in trappola. Aspettavo solo ogni giorno che arrivasse la sera, la fine di tutto, come se il tempo passato non fosse mai esistito, come se le ore trascorse potessero cancellare gli errori, e mi convincevo, addormentandomi, che il giorno successivo sarebbe stato diverso. E invece no, ogni giorno era uguale a quello trascorso, tormentato, perso, distruttivo. Tanti buoni propositi traditi, tante false illusioni.
E mentre la mia testa mi diceva di liberarmi dagli schemi, di impegnarmi a riafferrare la mia dignità, lo specchio mi dava un’immagine di me paradossalmente gratificante. Diminuivo, mi restringevo, mi toglievo l’impiccio di starmene al mondo. Senza sforzo l’ago della bilancia scendeva e la mia autostima saliva. Ero in grado di fare qualcosa; non capivo ancora che era quella sbagliata.

Poi si arriva ad una svolta. Ti svegli una mattina e ti accorgi di non poterti più nascondere dietro un dito. Ti rendi amaramente conto che la magrezza non ti rende invisibile, anzi, accende negli occhi degli altri, di chi non conosci, una malsana curiosità, e in quelli dei tuoi cari una visibile preoccupazione. Tanti sforzi per liberali di un peso e invece il risultato ottenuto è una prepotente imposizione di tutti i tuoi sciocchi schemi.
E la paura di ingrassare diventa paura di vedere gli altri soffrire per te, e infine, paura di morire. Il senso di colpa trasla: da causa del male altrui cominci a sentirti causa del tuo male, e tutti quei piccoli problemi fisici, i capelli fragili, le unghie sofferenti, la bradicardia, gli ormoni impazziti, l’amenorrea, ti si palesano prepotentemente ficcandoti in quella testolina disturbata l’idea che la ragione di tutto è stata proprio quell’incosciente e autolesionista regime in cui ti sei costretta a vivere. E la bilancia da inseparabile compagna diventa un oggetto disprezzabile e spaventoso da cui fuggire. E ti scatta una molla, e una domanda: sono ancora in tempo per recuperare? Non è troppo tardi per correre ai ripari?
Quando ho cominciato a capire che non fa bene a nessuno vivere in uno schema, che una vita controllata e calibrata in ogni suo aspetto non è vita, ma una morsa, una monotona catena di montaggio, una fabbrica, dentro di me ho avvertito sciogliersi un nodo. È stato come riemergere dopo una lunga apnea, togliermi dalla faccia un cuscino che mi stava soffocando e tornare a cibarmi di aria. Sarei finita, alienata, a raccogliere i cocci di un’esistenza sprecata a controllare inutili ingranaggi: le calorie, i nutrienti, gli orari, gli odori invasivi, le sciocche abitudini che precludono la serenità. Ho cominciato, con l’aiuto dei miei genitori, di mio fratello e della sua ragazza, due fari nel buio, dei medici, a smettere di oliare quegli ingranaggi e a vedere come andava.

La chiave di tutto è sperimentarsi, mettersi in gioco e cercare e accettare gli imprevisti. Non aver paura delle conseguenze, e per quanto grande fosse il timore del risultato, ho cercato di guardare avanti, di recitare una parte, forse, all’inizio, ma di affrontare comunque a testa alta la vita.
Di ricadute ce ne sono state, e ce ne saranno. Certi atteggiamenti, temo, non mi lasceranno mai, ma anche solo la maturata consapevolezza che nutrirsi è importante è per me una grande conquista. E mangiare con gli altri senza timore, raccattare la sera i tasselli del giorno trascorso e non ricordarsi maniacalmente tutto quello che si è ingurgitato per poter calcolare scrupolosamente tutte le calorie depositate sui fianchi, è davvero un grande sollievo.

Il desiderio più grande era quello di vivere senza sensi di colpa, senza l’idea fissa e martellante che non mi meritavo niente, che ero una pessima persona. Vivere senza dover combattere con quel maledetto pessimismo che mi lasciava nel profondo la sensazione che nulla potesse risolversi, che non sarei mai riuscita a recuperare tutto quello che avevo perso, che mangiare di più avrebbe significato diventare una balena spiaggiata.
Si, il desiderio di tornare ad essere normale, di riuscire di nuovo ad abbracciare le persone che meritavano tutto il mio affetto, senza il timore che potessero restare scioccati ritrovandosi tra le braccia uno spigoloso cumolo di ossa, è stato più forte dell’istinto malato e contorto a distruggermi. Nessun giudizio negativo, nessuna critica, neppure un briciolo di odio negli occhi dei miei cari, ma solo amore e desiderio di appoggiare e sostenere una mia rinascita. È stato questo a darmi la spinta: alla mia forza di volontà si sono aggiunti gli stimoli della mia mamma, le sferzate di mio fratello, le iniezioni di ottimismo e di solidarietà della sua ragazza.
E ho smesso di ragionare a recupero: mangiare si, ma limitarmi dopo, finché non mi fossi sentita di nuovo in pace con me stessa; una brutta abitudine che ormai non ho più. E un passo dopo l’altro ho cominciato a spezzare gli schemi, a mangiare all’ora in cui mi veniva fame, a non programmare le giornate ma a vivere tutto al momento, accettando le contaminazioni che fanno parte della vita, senza osservare tutto con ansia e apprensione, ascoltando le proposte e accogliendole con entusiasmo.
Mi sono accorta così, sperimentando, che le novità sono stimolanti e l’energia che ti rimandano è pazzesca, che è tanto bello mangiare quello che si vuole, quello che lo stomaco ti chiama e non quello che la testa ti comanda.

Mi sono riscoperta diversa, più matura, più consapevole delle cose davvero importanti e la sensazione di essere una brutta persona, una persona che non poteva meritarsi niente, è pian piano scemata sostituita invece dalla percezione che la voglia stessa di venir fuori dai problemi, ancor prima che l’impegno a superarli, ci rende tanto migliori.
È un percorso lungo, a tratti ancora doloroso, ma importante. E non mi interessa quanti chili metterò su; mi sento soddisfatta guardando nello specchio una testolina che sorride al mondo, con una faccia serena contornata da capelli di nuovo forti, con mani ossute ma consapevoli di poter afferrare ancora tutto della vita, con gambe che mi sosterranno in tutti i miei futuri progetti, con ossa solide, come salda e la mia forza di volontà, e con braccia, finalmente non più così magre, che sapranno sempre gettarsi al collo degli altri. Perché non c’è niente di più onesto che sperimentare la fisicità, che lasciarsi andare ad un abbraccio.”