Le storie

dott. Giuseppe Montefrancesco

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Dott. Giuseppe Montefrancesco

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L’armata degli psiconauti.

Tre amici, tre menti scovatesi l’un l’altra nel marasma farraginoso della facoltà di filosofia; in comune un’empatica affinità per l’indagine della percezione, della sensorialità, dell’intellezione. Ciò di cui ci occupavamo? Sondare i scivolosi precipizi di ciò che ci appariva ordinario attraverso esperimenti sensoriali, alterazione del normale iter percettivo, confronto sugli esiti riportati.
Eravamo curiosi, eravamo attratti dalla possibilità di penetrare le intime ragioni del cosmo scompaginandone l’ordine arbitrario attraverso un radicale rivolgimento di prospettiva, con nuovi ed altri sensi o, come preferisco chiamarli, strumenti percettivi. L’idea era quella di costruire una sorta di inventario di annotazioni di sostanze ed effetti ogni volta personalizzati, ogni volta diversi, ogni volta sorprendenti a seconda dei nostri differenti approcci alle stimolazioni.
Inevitabilmente l’intento attivo e coeso del gruppo è andato perduto volta per volta, sostanza per sostanza, serata per serata, in breve tempo. Troppo faticoso da gestire, troppo intenso per ricordare, troppo performante per attestarne le impressioni con dedita attenzione.
2C-E (2,5-dimetossi-4-etilfenilamina)
Una sera incontrammo un losco ed attraente individuo, dall’eleganza sgualcita di abiti e portamento.
Ci portò in casa sua, poco lontano dal centro, promettendoci con parole reticenti, un arsenale di proposte da sballo. Lo seguimmo, incuriositi e venimmo condotti in un giaciglio buio, illuminato soltanto da una lampada al neon che irradiava un innaturale colore blu nell’intera stanza. 2 C-E, questo ci avrebbe proposto di lì a poco, dosando la polvere in capsule trasparenti.
Potevamo stare tranquilli, era ancora legale in Italia, era una di quelle smart-drug da serata, non eccessivamente invasiva, non da sottovalutare…queste le laconiche istruzioni somministrateci da quell’indecifrabile personaggio. Decidemmo di farne uso ognuno in un’occasione diversa, per confrontare più lucidamente l’esperienza senza inficiarne o amplificarne la percezione condividendola contestualmente.
Io fui l’ultima.
Passò del tempo, molto, da quell’episodio. Conservavo la capsula in freezer, come da istruzionie decisi di provarla quando ormai mi ero quasi dimenticata di averla, quando credevo in una presunta degenerazione del principio attivo. Mi rifugiai in una casa di montagna, con tre amici ignari dei miei intenti, per una serata di isolamento ed offuscamento da cibo e vino, come ci piaceva fare per staccare dalla quotidianità urbana.
Diluii la polvere in un abbondante bicchiere d’acqua e sparì alla vista in un istante.
Poi l’attesa.Quella mezz’ora d’ordinanza in cui non fai altro che aspettare impaziente. Ingerisci ed aspetti…non sai mai quando arriverà, non sai cosa sarà, ma devi essere pronto ad accoglierlo, qualunque cosa sia e ad imprimertelo bene nella mente, o meglio, nei sensi, che quando prendi droghe sintetiche, sono più affidabili nel rimanere ‘impressionati’. Passi momenti di implacabile trepidazione tenendo l’orecchio interiore del tuo corpo, pronto a riconoscere qualcosa di anomalo. E poi, d’un tratto, avverti qualcosa di sempre più definito che si impadronisce delle tue membra, delle tue interiora, del tuo timone. Ed ecco pronto un efficace filtro attraverso cui guardare il tuo intorno.

C’è chi ne ha descritto l’effetto iniziale come una continua colata d’oro nel sangue, una densa cascata preziosa che si fa spazio nelle vene e fa brillare gli occhi di una luce nuova. Quel flusso d’oro così dolce e lussurioso per altri è stato per me una tediosa vibrazione continua che prendeva le mosse dalle appendici del mio corpo, mani e piedi. Insieme all’oro delle amfetamine il mio sangue era diluito con una buona percentuale di alcol, tale da rendermi meno inibita nei confronti della nuova sostanza e del suo mistero.
Davanti allo specchio mi guardavo instancabilmente. Il mio volto si deformava in modo impercettibile, ma le mie percezioni erano potenziate, apprezzavano una più vasta gamma di dati di senso. Gli occhi mi impressionavano, le pupille dilatatissime di un nero profondo che modulavano dolcemente la propria forma, il cui contorno si increspava e si distendeva morbidamente. Rimasi incantata per una buona mezz’ora, immobile di fronte al mio volto così ‘altro’ e così intimamente mio. La vibrazione, come un basso continuo, non dava tregua, era lì, costante, quasi a voler rassicurare con la propria insistente presenza.
La casa di montagna, angusta asfissiante; la pareti ed il soffitto perlinati. Il mio materiale di analisi: le venature. Nulla di più interessante in quel momento, in quelle ore.
Il mio sguardo scorreva di asse in asse, di segno in segno, modellando figure evocative in quel confuso intersecarsi di linee. Morbidezza e fluidità, queste le parole d’ordine su cui si innestava il virtuosismo decorativo dal gusto baroccheggiante. A letto l’arzigogolata fantasia di lenzuola e federe IKEA non mi dava pace, una trama intricata di rami e foglie stilizzati rossi, si avviluppava, scorreva, si allungava pur rimanendo ferma.
Questo il paradosso degli effetti della sostanza: non complete allucinazioni, ma abbozzi.
La consapevolezza lucida, ma ovattata di sé e del cambiamento del proprio punto di percezione, dell’artificiosità della percezione stessa, che non permette di immedesimarsi del tutto nell’alterazione; ero un’ibrida, rintontita e concentrata sui particolari delle cose, sulle loro decorazioni, sulle loro superfici. Nessuna scompaginazione dell’ordine cosmico, nessuno sguazzare tra le nere acque delle profondità delle cose, nessuna epifania che lacerasse il velo di Maya. Solo una giocosa increspatura della superficie che si intratteneva fino al suo stesso logoramento.

Erano trascorse 7 ore e 33 minuti, la vibrazione affievolita, ma l’inseguirsi delle forme sembrava non accennare a smettere. Non potevo uscire di casa, fuori nevicava ed io ero in shorts e canottiera. Fuori solo una strada e il nulla. Tutti dormivano, sbronzi persi, ed io vagavo da un angolo all’altro della casa, senza mai trovare pace, ormai sola e spettatrice dei miei stessi atti rassegnati.
Una droga da spettatore, la chiamerei, dove ciò che accade sembra una scenetta da teatrino, uno sketch di cui ridere; a parte i lunghi momenti di osservazione assorta sui particolari dell’apparenza, ciò che accade è tutto un avvicendarsi di scene effimere e fuggenti. Non c’è spazio per la riflessione, solo l’ottusa osservazione di un reale condito, che si dipana davanti ai tuoi occhi, di cui sei divertito spettatore, seduto in poltrona.
Ero del tutto impotente, vittima del dilungarsi arbitrario dell’effetto. Credevo a tratti di non poter più uscire da quella condizione di minorità. Me lo ripetevo, non avevo margine d’azione, ero grottesca, potevo solo aspettare. Già, l’attesa, di nuovo, speculare a quella iniziale, altrettanto trepidante, ma senza la sicurezza di una fine. Chiudevo gli occhi e non potevo dormire, le membra esauste, la mente eccitata; nel buio del retro-palpebra vedevo forme geometriche in continua generazione l’una dall’altra, che si inseguivano, si moltiplicavano e cambiavano colore senza soluzione di continuità. Mi nauseavano nell’impossibilità di dormire.
All’alba dell’ottava ora, nell’apogeo del totalitarismo immaginifico di cui ero adepta forzata, le forme iniziarono a diminuire la propria frequenza di produzione e la potenza percettiva, così, mentre il vibrante basso continuo conduceva lentamente alla conclusione, la mente esausta cadde in un limbo di esanime improduttività ed io in un sonno profondo.

Durante la fase calante, nella parabola dello sballo, ho riflettuto a lungo sul necessario margine di socialità che richiede un certo tipo di droghe. La necessità era, più forte che mai, quella di condividere quel viaggio, ero tanto lucida da poterlo fare, ma ero sola. Il labile confine tra un’attività intrigante e l’impressione di una condizione di minorità da cui non poter uscire è legato indissolubilmente alla condivisione.
Sostanze come queste sono droghe sociali, performative, droghe ‘da serata’, dove cammini, balli, ti dimeni fino al mattino, smarrendo te stesso nell’entropia di corpi senza volto.
Stavolta mi aspettavo una droga da meditazione e solipsismo…ho toppato.