Le storie

dott. Giuseppe Montefrancesco

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Rosa Shopping

A rigor di logica, e finché non avvengono cambiamenti antropologici epocali, una madre di famiglia difficilmente è disoccupata. Le madri che lavorano fanno il doppio lavoro: fuori casa e in casa, le madri disoccupate fanno solo il lavoro in casa che, anche se non retribuito, è pur sempre un lavoro di circa sette ore e mezza al giorno. Non c’è da stupirsi se ad alcune donne basta questo lavoro se appena possono permetterselo.

Il lavoro casalingo è un lavoro molto frammentario, a volte lascia frammenti di tempo, non tempi liberi, dal momento che si aspetta sempre qualcosa: che finisca il lavaggio della lavatrice per poi tendere i panni prima che venga a piovere, oppure che cuocia il pollo, o la torta nel forno, o che rientrino i figli da scuola, e così via. Non sono tempi liberi ma tempi morti o tempi vuoti.

Insomma per dimenticare che a volte ci sente delle semplici appendici degli elettrodomestici può capitare di andare al mercato.

Dove abito io ci sono tre mercati equidistanti : il martedì a Poggibonsi, il mercoledì a Siena, il venerdì a Colle val d’Elsa e un altro giorno della settimana c’è il mercato del mio paese.

Sei anni fa in conseguenza di una claustrofilia provocata da un protratto quanto involontario periodo di disoccupazione ho dovuto affrontare con grinta una sorta di riabilitazione al mondo esterno alla casa. Dovevo disintossicarmi dalla passione per l’isolamento e che cosa di meglio che correre per mercati? Per circa due mesi sono stata una forzata dei mercati, li frequentavo tutti ma , non potendo permettermi di comprare qualsiasi cosa, la sfida era fare almeno un acquisto al minor prezzo per premiare il mio sforzo di uscire.

La casalinga oscilla così tra la claustrofilia che la consegna all’interno della casa e una frenesia sfrenata all’acquisto di piccole cose ogni volta che esce; ma poiché la casalinga, anche se il marito le garantisce un buon reddito, pensa sempre di non meritare niente, allora al mercato predilige i banchi dell’usato o delle piccole piante che possono essere una gioia per tutti i componenti della famiglia, e pazienza se ogni volta scoprirà la loro palese indifferenza.

Fu così che una mattina al mercato di Colle, al banco dell’usato ‘di pregio’ la vidi . Era una sciarpa di lana, lavorata mano, di forma triangolare e con le frange. Rimasi interdetta e quasi folgorata dal suo colore: rosa. Era un punto di rosa particolare che più lo guardavo più mi incantava, né virato al violetto né virato all’arancio. Rigirandomi questa sciarpa tra le mani mi convinsi che era proprio di un rosa perfetto! La desiderai intensamente.

Costava 7 euro e mi sembrò una cifra troppo alta da spendere solo per me. Dubbiosa e incerta la lasciai sul banco, continuando poi a pensarci per il resto della mattina. Il venerdì successivo ero planai di nuovo a quel banco come una poiana. Ero determinata a spendere qualsiasi cifra per avere quella cosa di un rosa perfetto. Ma non c’era più. Com’era possibile? La cercai nei mercati le settimane successive : niente. Allora cercai di ripiegar qualcosa che potesse somigliarle, ma niente, nessuna merce mi restituiva quel sentimento di adesione così assoluto come quel rosa perfetto.

Mi sentii sciocca e stupida per aver perso un oggetto per me tanto importante e solo in conseguenza del fatto che non avevo avuto l’ardire di spendere 7 euro per me. Però dovevo anche ammettere che a me il rosa non dona, anzi sta malissimo, mi sbatte! Il mio smacco era la perdita di un oggetto di un rosa perfetto. La questione non era non poterlo indossare, la questione era non poter possedere una cosa di quel rosa perfetto. Quel rosa perfetto doveva essere mio e invece l’avevo perso e ora ero afflitta dal rimpianto.

Perché? Da casalinga a consumatrice, sempre a caccia di un oggetto ‘significativo’ da possedere, il rimpianto di quell’oggetto rosa perfetto mi gravava addosso ad ogni uscita per shopping. Era un’ossessione: andava affrontata. Ma come? Improvvisai.

Il primo rosa perfetto lo avevo tenuto in mano a cinque anni con i pastelli Giotto. Ma per me era stato solo uno di dodici colori perfetti e non il mio preferito. Era invece il colore preferito della mia prima compagna di giochi, poco più grande di me. Lei mi torturava pigliandomi in giro e facendomi sentire una sciocca ogni volta che alla domanda: “quale colore preferisci? “ rispondevo ingenuamente “Verde”. Allora lei mi guardava commiserandomi perché non capivo quella cosa essenziale e segreta e che ogni bambina, tranne me, sembrava sapere: l’importanza di apprezzare il rosa! Ammiccava sempre nel trattare l’argomento come se non potesse dirmi tutto in modo chiaro ma solo per sottintesi: il rosa era il colore della femminilità, come gli smalti e i rossetti, il rosa era il colore dell’arma delle donne : la seduzione.

Indugiai a lungo sul ricordo di quella prima relazione extra familiare, che mi iniziava infruttuosamente alla mistica della femminilità. Negli anni lei era diventata una casalinga appagata di sé e della sua prole, forse un po’ querula ma infondo allegra e sana. Il rosa mi aveva riportato il suo messaggio segreto e l’illusione che anch’io, possedendo qualcosa di un rosa perfetto, avrei potuto anche solo per questo trasformarmi nella casalinga perfetta e paga di sé che non riuscivo ad essere.

Questa trasformazione non è mai avvenuta e forse anche lasciare la merce più cara sul banco può essere un provvidenziale atto mancato.

Carla Caterina Rocchi